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Siamo sportivi, non siamo militari

Il soft air è pieno di sedicenti “operatori” che snaturano lo spirito del gioco inseguendo i propri fantasmi

Nel soft air circolano da sempre sedicenti “veterani delle forze speciali”, reduci da fantomatiche missioni all’estero, che propongono se stessi come grandissimi esperti di tecniche e tattiche di combattimento. Per quello che ne sappiamo noi, che in questo settore ci lavoriamo da più di trent’anni e certe cose non ce le beviamo facilmente, si tratta quasi sempre di millantatori. Nel soft air, purtroppo, circolano molti soggetti che, anziché il divertimento, cecano una soluzione ai propri problemi di autostima. Queste persone, prima ancora che disoneste nei confronti degli altri, lo sono verso se stesse, perché con l’assecondare i propri complessi non fanno che aggravarli portandoli al limite della psicosi. Non solo: costoro fanno anche tanto danno al soft air, in quanto diffondono un’idea sbagliata del nostro gioco, che appunto è un gioco, un’attività ludica con spiccate vocazioni sportive e atletiche, non un surrogato della pratica bellica. Tale aspetto, in particolare, viene spiegato molto bene da Michele “Aquila” De Rossi del club Sentinelle del Mincio di Mantova nell’articolo che segue, da noi pubblicato come editoriale su “Soft Air Dynamics” n. 129 (aprile 2021).

Siamo sportivi, non siamo militari

Come spesso facciamo sulla rivista, diamo spazio a un esponente del soft air italiano per esporre le proprie riflessioni sul nostro mondo sportivo. Questa volta, a firmare l’editoriale è Michele De Rossi delle Snetinelle del Mincio di Mantova.

«La nostra è un’associazione molto dinamica, svolgiamo annualmente diversi eventi e amichevoli, contiamo circa trenta operatori». Quante volte avete sentito una descrizione simile? Magari anche voi, in un impeto d’orgoglio, vi siete definiti operatori. Penso che lo abbiano fatto prima o poi tutti. Ma siamo davvero operatori? Perché usiamo questo termine? Lo abbiamo traslato dal mondo militare senza badarci troppo.

In verità il chiamarsi “operatori” altro non è che un sintomo, l’ennesimo, di una sostanziale crisi d’identità del soft air. La stessa crisi d’identità che ci porta ad andare al MacDonald o al bar, prima e dopo il gioco, in mimetica, a descrivere la nostra attività come una simulazione militare e in generale ad atteggiarci come veri combattenti. Si potrebbe obiettare che la mimetica è la nostra divisa da gioco e che quindi è lecito indossarla. Si, ma no. Chi gioca a calcio si cambia negli spogliatoi e non va alla cena della società in divisa da gioco, come del resto chi fa nuoto non va al bar in costume dopo la gara. Noi, inoltre, abbiamo l’aggravante di dare un’immagine molto “militarista”. Se quindi un calciatore può andare al ristorante in braghette e scarpini senza suscitare effetti particolari, noi non possiamo andarci in mimetica senza attirare l’attenzione. Possiamo ritenere che sia brutto e sbagliato, ma non possiamo ignorare questo fatto.

Anni fa, un giocatore veterano mi disse: «Gli stereotipi sui softgunner sono tutti veri». Aveva ragione. Basta vagare su Instagram e Facebook o frequentare eventi e circuiti per trovare foto con finti prigionieri con pistole alla nuca, club che vanno a zonzo in mimetica completa prima e dopo l’evento (ma costa tanto mettere una felpa?), persone che si descrivono come operatori, fucilieri eccetera.

Può essere spiacevole ammetterlo, ma noi siamo solo giocatori di soft air. Softgunner, se piace l’espressione. Per quanto mi riguarda, potremmo anche, a certi livelli, definirci atleti. È un termine che ci darebbe certamente tutta la dignità di persone che praticano un’attività sportiva sana e dinamica. Di certo, non siamo operatori. Non è sbagliato usare la parola “operatori” in senso assoluto, né indossare la mimetica o postare foto “armati” sui social. Semplicemente, bisogna distinguere i contesti. Sul campo, mentre vivo il mio “film”, posso chiamarmi operatore. Quando parlo in contesti non strettamente di gioco, accessibili agli estranei, non posso usare questo termine, perché rischio di dare un’immagine sbagliata. Lo stesso vale per le mimetiche: sono la nostra tenuta di gioco, ma non è un buon motivo per passeggiarci in paese. Fa un’impressione negativa a molte persone, è così, ed è inutile e dannoso per noi raccontarci belle favole sul fatto che le cose sono diverse.

Non è sbagliato neppure postare foto sui social, ma bisogna essere consapevoli di quella che è la sensibilità della pubblica opinione, e la pubblica opinione giudica male la foto di “Ahmed”, al secolo Mario Rossi, che interpreta il prigioniero talebano con la pistola alla nuca. Più difficile è definire ciò che facciamo: sport di combattimento? Simulazione militare? In un vero scontro a fuoco, in un vero combattimento, il migliore dei sofgunner si ritroverebbe a piangere in posizione fetale. Un pugile, quando prende un pugno, lo prende davvero; se poi si trova in una rissa da bar, sa come dare e come incassare un cazzotto. Il sofgunner non può dire di essersi già trovato in un combattimento a fuoco, né di fare un’attività simile, perché tra un pallino e un proiettile, tra la forma mentis del softgunner e quella di un combattente, ci sono molte, troppe differenze. E c’è sempre il discorso opinione pubblica, avulsa da certi termini, anche se ben spiegati. Quindi, anche fosse lecito definirsi in un certo modo, non sarebbe comunque conveniente. Dire cosa facciamo in effetti è difficile. Potremmo forse dire che pratichiamo un’attività sportiva di opposizione tra due o più giocatori/squadre, svolta impiegando dei giocattoli che riproducono le forme di armi da fuoco, ma che sono del tutto innocui. In effetti ci piazziamo su un piano molto simile a quello di un rievocatore storico, che sa maneggiare un moschetto o uno spadone, che simula un combattimento, ma che, in una vera battaglia, durerebbe cinque minuti. Quella dell’attività sportiva di opposizione, per quanto bizzarra, è quindi forse la definizione migliore, tenuto conto di tutto.

È auspicabile che la comunità dei softgunner acquisisca consapevolezza di questi aspetti e sviluppi una propria identità, che dunque non è quella di essere operatori che compiono missioni speciali, ma è quella di essere giocatori, atleti, che praticano un’attività sportiva all’aria aperta, che non simula azioni militari e non è realistica, ma semplicemente divertente e innocua.

Un linguaggio corretto e un’immagine altrettanto corretta di noi stessi e di ciò che facciamo sono il primo passo verso l’affermazione del soft air come sport e la sua piena accettazione da parte della società.

Michele “Aquila” De Rossi
Sentinelle del Mincio, Mantova

SOFT AIR DYNAMICS

è l'unica rivista mensile a diffusione nazionale interamente dedicata allo "sport del 21° secolo": il soft air, gioco di squadra che riunisce in sé le discipline del combattimento a fuoco simulato.

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